PRIMA PARTE
Stare nel mezzo: il ponte sacro della mediazione interculturale
Il conflitto: fortemente attuale questo tema. E molto coerente con un genere umano che non vuole saperne di perfezionare il suo percorso evolutivo, costantemente a rischio estinzione per la sua innata vocazione alla contrapposizione, allo scontro: tra singoli, in famiglia, nelle comunità, tra popoli e governi.
Poco interesse per il confronto, nessuna voglia di comprendere l’Altro e di godere il fascino del diverso, del “lontano da noi”. Tra gli antidoti a questa follia suicida l’istinto di sopravvivenza, la cultura della pace e, appunto, la mediazione, la capacità di stare nel mezzo e sospendere in equilibrio forze contrapposte, attraverso la forza del dialogo e dell’ascolto nelle loro accezioni più numinose. Tutte le “persone di buona volontà” dovrebbero essere rese consapevoli e formate per essere attivate in questo ruolo. Nelle relazioni umane ci troviamo ogni giorno nella necessità di incontrare l’Altro per i motivi più disparati, gli obiettivi più eterogenei, gli obblighi più inderogabili e diventa fondamentale saper incontrare l’Altro in un’ottica di costruttiva interazione. Nella comunicazione tra persone della stessa cultura, proprio perché dividono princìpi condivisi, si può dare per scontata una consapevolezza identitaria che aiuta a rendere automatica la comprensione reciproca. Dare per scontata la comprensione in un contesto multiculturale può essere, al contrario, più rischioso perché ognuno dei partecipanti utilizza conoscenze comunicative diverse che possono risultare meno accettabili dagli interlocutori.
La cultura costruisce necessariamente filtri che ci inducono a leggere la realtà in modi diversi fin dalla nascita. Questi filtri producono condizionamenti, spesso inconsci, che rischiano di compromettere la nostra corretta lettura della realtà e, soprattutto, pregiudicare i nostri giudizi e i nostri comportamenti nei confronti dei componenti di altre culture. Questi meccanismi, definibili col termine latino vulnus, perché riassume insieme il concetto del danno e dell’offesa (danno sociale e offesa a chi ne subisce le conseguenze), li conosciamo dall’infanzia, anche in modo inconsapevole, e si sono installati nel nostro vissuto così rigidamente da rendere difficili e faticosi i doverosi aggiustamenti. Il conflitto viene alimentato da questi vulnus, di cui tutti siamo, più o meno, affetti: l’etnocentrismo, il pregiudizio e lo stereotipo. Conosciamoli meglio per tenerli lontani dalla nostra anima e avviare il processo di guarigione.
Come risulta evidente dalla sua etimologia, l’etnocentrismo è la tendenza a eleggere la propria comunità, la propria cultura al centro del mondo e a valutare le altre, la loro storia, la loro struttura sociale, la loro evoluzione, attraverso i canoni (validi in assoluto e pregiudizialmente) della propria. Gli sforzi da compiere per tornare in equilibrio devono essere dunque volti a mettersi in discussione, a evitare il rischio della contrapposizione e, soprattutto, a perfezionare la conoscenza delle altre culture, provando a interpretarle nelle dinamiche che ne contestualizzano l’essenza. Soprattutto nella nostra contemporaneità, in cui si affermano in molti contesti sociali modelli differenziati per funzioni e si assiste a una recrudescenza di indebolimento e inosservanza dei diritti umani insieme a un’accentuazione della prevaricazione discriminatoria nei confronti di alcune fasce della popolazione, è necessario alzare il livello di attenzione nella consapevolezza che considerare l’Altro diverso o, peggio, inferiore, possa originare derive pericolosissime. Siamo di fronte a una forma nuova di etnocentrismo, l’etnocentrismo modernista, che consiste nella contrapposizione tra il valore positivo delle forme culturali della differenziazione per funzioni, come il pluralismo, e il valore negativo di ogni forma culturale che le minacci o le neghi. Il pregiudizio è un’antipatia fondata su una generalizzazione falsa e inflessibile e può essere sentito internamente o espresso e diretto verso un gruppo o verso un individuo in quanto suo componente. Spesso il pregiudizio nasce dal fatto di non conoscere direttamente l’altro e le sue vere caratteristiche; la parola pregiudizio presenta un’etimologia latina chiara: il prefisso pre significa prima, mentre giudizio deriva dalla stessa radice di giudicato. Nella nostra quotidianità assistiamo a numerosi esempi di pregiudizio, come il razzismo, il sessismo, lo stereotipo religioso, l’ageismo, il classismo, l’omofobia, la xenofobia. Il pregiudizio si inserisce nel normale pensiero umano: infatti già a cinque anni ci rendiamo conto di far parte di certi gruppi (razza, religione, classe, sesso) attraverso una scelta non nostra ma che accettiamo, adottando i pensieri condizionati e condizionanti dei genitori e dei componenti della famiglia o crescendo in un ambiente che ci rende timorosi o sospettosi. Solo verso i nove-dieci anni inizieremo a confrontarci con altri gruppi a livello cosciente e saremo in grado di disconoscere l’identità sviluppata ma, quasi inconsapevolmente, avremo già sviluppato la lealtà verso le nostre categorie, avremo giudicato gli altri inserendoli in apposite classificazioni.
Secondo la teoria della costruzione sociale, i pregiudizi e gli stereotipi (che analizzeremo in seguito) sono una sedimentazione di conoscenze e di memorie collettive, una specie di archivio storico con il quale una comunità concepisce e spiega le relazioni tra i gruppi secondo un codice condiviso di simboli d’interpretazione che permette ai pregiudizi e agli stereotipi di spostarsi dal perché al come si realizzano, si riproducono e si diffondono. Per la teoria della costruzione sociale la realtà è una massa infinita e indistinta di eventi che non hanno un significato proprio ed è l’individuo che, attraverso il processo di conoscenza, seleziona gli eventi da una massa infinita d’informazioni, assegna loro un nome e una descrizione ai fini della comunicazione con i propri simili.
La classificazione degli eventi per categorie non è quindi una costruzione individuale ma collettiva, che si attua attraverso la comunicazione, pertanto le pratiche comunicative rappresentano uno dei principali veicoli di diffusione di pregiudizi e stereotipi, i quali si riproducono attraverso i mezzi di comunicazione di massa e la comunicazione interpersonale. Pregiudizi e stereotipi acquistano forza soprattutto attraverso le tecniche della comunicazione persuasiva, basata sulle argomentazioni usate a sostegno di determinate interpretazioni dei fatti e impiegate per rapportarsi a eventi significativi. Tenere conto solo dei processi di comunicazione può comportare il rischio di perdere di vista il contributo fornito sia dai processi mentali, sia dalle cause politiche e sociali che sono alla base dell’uso ideologico del pregiudizio. Allo stesso modo il concentrarsi sulla creazione e diffusione di pregiudizi e stereotipi soltanto sotto il profilo psicologico porterebbe a trascurare le ragioni sociali della loro formazione e renderebbe difficoltoso comprendere le cause che determinano la loro nascita in un dato momento storico e in uno specifico contesto sociale, culturale, economico e politico. Si correrebbe il rischio di non capire le motivazioni che incidono sulle interazioni quotidiane e sullo spazio vitale di ogni individuo che mette in atto o subisce gli effetti negativi di pregiudizi e stereotipi.
L’analisi dello stereotipo conferma la pochezza (nonostante la tracotanza dovuta ai grandi risultati scientifici dal genere umano) della nostra mente: lo stereotipo è definibile come una grossolana semplificazione della realtà in grado di originare rigide interpretazioni con le quali ogni individuo quotidianamente interagisce. La mente umana spesso non è in grado di acquisire, analizzare e comprendere la complessità e l’infinita varietà di sfumature del mondo. Lo stereotipo svolge una funzione difensiva perché garantisce la conservazione delle posizioni sociali acquisite da un individuo all’interno o all’esterno di un gruppo e protegge l’organizzazione sociale da mutamenti indesiderati. Non si forma in modo casuale o per una scelta arbitraria, perché è una parte integrante della cultura di un gruppo, in quanto si costituisce ed è utilizzato dai singoli individui attraverso un lungo processo di socializzazione. Lo stereotipo è l’espressione della necessità psicologica della nostra mente di semplificare la realtà, un suo bisogno di gestire l’enorme quantità di informazioni e di stimoli provenienti dall’esterno semplificandoli attraverso la categorizzazione.
Daniele Gallo
Direttore Didattico UniUma
Articolo pubblicato su ” Il Foglio dell’Umanitaria” numero 1 del 2024 – Conflitti. La complessità del reale