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UNIUMA – S.S.M.L. ad ordinamento universitario “P.M. Loria”

SECONDA PARTE PARTE

L’atto del comunicare vive della competenza comunicativa che si realizza, su un piano pratico, attraverso l’espressione di tre livelli che articolano la conoscenza della lingua:

  1. competenze linguistiche (cioè la capacità di organizzare enunciati linguistici congrui e organici), competenze extralinguistiche (cioè la capacità di produrre adeguati comportamenti in cinesica e in prossemica) e competenze contestuali storiche e socio-linguistiche e interculturali (sapere la lingua);
  2. competenze mentali, cioè la capacità di traduzione in un’azione comunicativa (saper fare lingua);
  3. competenze normative e pragmatiche (saper fare con la lingua).

Esaminiamo ora alcuni problemi comunicativi interculturali legati alla lingua, ai gesti e alla postura del corpo. Per ciò che attiene la lingua, la riflessione si estende alla scelta delle parole, al modo in cui usiamo le dinamiche grammaticali, alla componente linguistica di un evento comunicativo. Come si può facilmente intuire la scelta delle parole e della struttura grammaticale-sintattica è nevralgica per una comunicazione interculturale corretta. Proponiamo alcuni modelli di possibili e imbarazzanti errori e alcune indicazioni per evitarli. È importante, ad esempio, porre attenzione a:

  1. i modi dei verbi. Nella cultura araba esiste il divieto culturale di usare il tempo futuro, poiché il futuro è solo nelle mani di Dio;
  2. l’uso di superlativi e comparativi. Nella cultura nord americana ogni luogo si distingue per il suo the most. L’uso del superlativo è particolarmente coerente con una cultura fortemente competitiva come quella americana. Proprio al contrario di quella inglese dove i toni sono sfumati e non è diffuso il comparativo di minoranza. Queste caratteristiche culturali possono provocare malintesi e incomprensioni.
  3. la costruzione delle forme interrogative, il domandare per sapere (con risposta aperta) e il domandare per sentir confermata la propria opinione (con risposta chiusa, dove è possibile solo il sì). Nella cultura eritrea (ma anche in altre africane e orientali) gli indigeni non posso rispondere di no a una domanda chiusa di uno straniero se non vogliono offenderlo gravemente. Se uno straniero domanda a un indigeno: «È questa la strada per Nairobi?», questi è obbligato a rispondere di sì, anche se sa bene che la direzione corretta è quella opposta, avendo lo straniero posto una domanda che può avere come risposta solo sì. In molte culture, dunque, una domanda chiusa, cioè con una risposta sì/no può avere solo una replica positiva, volta alla conferma del rango di colui che pone la domanda e non a dargli informazioni, sulla falsariga peraltro di ciò che accade anche in Italia, quando un ospite chiede per esempio: «Posso usare il bagno?». Immaginiamo quanti malintesi possano essersi manifestati negli scambi commerciali o imprenditoriali fra le diverse culture. Alla richiesta diretta: «Hai fatto questo?», «Hai capito?» i tecnici americani ed europei ricevono sempre risposte affermative, salvo verificare che la realtà è esattamente contraria. Non si tratta di pigrizia o strafottenza dell’interlocutore, ma solo rispetto per lo stesso.

Per ciò che riguarda i gesti dobbiamo rilevare che il corpo offre molte informazioni involontarie, come arrossire, sudare, tremare, veicolando vere e proprie possibili chiavi di lettura. La distinzione che emerge è che, mentre scegliamo, più o meno accuratamente le parole da utilizzare in funzione della dimensione diafasica, noi non siamo in grado di scegliere le espressioni e i gesti. Analizziamo alcune distonie nelle relazioni interculturali. La cultura latina è portata ad un’espressione spontanea della gestualità e della mimica facciale, al contrario di altre, come quella giavanese, per la quale è giusto vietare ogni forma possibile di espressione. La posizione di braccia e mani è di diversa interpretazione: per esempio la cultura cinese e quella turca non accettano entrambe le mani in tasca; nella cultura araba la mano sinistra è impura e quindi va considerata inesistente. In molte culture accavallare le gambe non ha alcun valore comunicativo, mentre in Cina questa postura non è prevista; incrociare le gambe, lasciando che si veda la suola delle scarpe è gesto molto riprovevole nella cultura araba; nelle culture scandinave e in quelle medio ed estremo orientali togliersi le scarpe (in occidente cosa riprovevole) è spesso un gesto naturale che dimostra distensione e rispetto: addirittura alcune culture orientali accettano, anche se si tratta di un costume in regresso, il fatto di accarezzarsi i piedi in pubblico, senza che questo sia vissuto come irriguardoso.

A conclusione evidenziamo ciò che potrebbe vivificare una corretta ed efficace comunicazione interculturale: consideriamo l’incontro o lo scontro interpretato dalle persone, e non dalle culture. Se, infatti, pensassimo ad esse nella loro dimensione assoluta, diventerebbero un orizzonte difficilmente penetrabile, originante forme incontrollabili di razzismo. Siamo chiamati a osservare una “giusta distanza” nel guardare l’altro/a e per comunicare efficacemente con lui/lei, da trovare nella consapevolezza della nostra soggettività che ci fa leggere la realtà a modo nostro, orientando il livello delle aspettative e allontanandoci il più possibile dagli schemi mentali che guidano i nostri giudizi.

 

 

Daniele Gallo
Direttore Didattico UniUma