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UNIUMA – S.S.M.L. ad ordinamento universitario “P.M. Loria”

di Daniele Gallo

La ricchissima opera di Pasolini, con la sua articolata filigrana in cui si affollano interminabili collegamenti a volte coerenti, a volte contradditori, ha reso problematiche le valutazioni di una critica spesso imbarazzata nel trarne le difficili conclusioni.
La multiforme e prodigiosa attività artistica pasoliniana, infatti, “si sbriciola in una pluralità di scelte espressive, oltre che di manifestazioni variegate anche sul piano esistenziale, e in un singolare interventismo in presa diretta dentro il dibattito culturale del secondo Novecento” [1] , costringendo spesso ad analisi parziali piuttosto che favorendo sinottici quadri d’insieme, in grado di cogliere l’essenza piuttosto che la superficie.
Le difficoltà interpretative sono vieppiù aumentate per due ragioni dopo la sua morte: da una parte a causa di una sempre maggiore distanza di tempo e di un quadro culturale che certamente non aiuta e, dall’altra, per i frequenti ritrovamenti di pagine postume, inedite o dimenticate, che arricchiscono ma complicano. L’esempio di Petrolio ne è una prova tautologicamente evidente.
Ogni volta l’approccio critico rischia di rivelare tutta la sua balbuzie, tra ripensamenti e aggiornamenti, tra approfondimenti e goffe, necessarie, sterzate. Tuttavia una parte di esso è in grado di prenderci per mano e guidarci: ci riferiamo a Walter Siti e ai suoi dieci Meridiani che ci offrono l’ossimorica e immaginifica miscela di un Pasolini costantemente bifronte nell’interpretazione del suo ruolo e nella produzione della sua opera: ribelle e oppositore ma paradossalmente funzionale ai meccanismi dell’industria culturale, nemico dello sviluppo economico ma favorevole al progresso, a fianco della classe operaia ma comprensivo nei confronti dei poliziotti difensori del potere che la violenta. Lo conferma anche Massimo Recalcati nel suo recente Pasolini. Il fantasma dell’origine: “Sono note e diverse le contraddizioni che attraversano l’opera di Pasolini: individualista, testimonia con coraggio l’impegno civile e collettivo dell’intellettuale; anticlericale, si schiera risolutamente contro l’aborto; comunista militante, subisce l’espulsione dal PCI con il quale entrerà negli anni in una relazione conflittuale sempre più aspra; ateo e marxista, resta profondamente cristiano nello spirito; anticonformista, detesta l’anticonformismo: critico acerrimo dello strumento televisivo e del mondo dei media, si rivela sorprendentemente a suo agio proprio in quel mondo; contestatore vigoroso del ‘sistema’, i schiera contro i giovani contestatori del Sessantotto. […] Ragione e passione, storia e natura, pensiero critico e pulsione non trovano mai in Pasolini una conciliazione stabile, ma permangono in uno stato di perenne dissidio, senza sintesi possibile. Ai miei occhi è uno dei motivi, non secondari, della sua formidabile grandezza” [2].
È in questo ambito che si sono moltiplicate le riflessioni sulla passione di Pasolini per la periferia di Roma, palcoscenico delle borgate, per le quali perde letteralmente la testa: “non è stata una scelta da parte mia, ma una specie di coazione del destino. Poiché ciascuno testimonia ciò che conosce, io non potevo che testimoniare le borgate romane”. Ancora una volta il dibattito e il confronto tra due facce: periferia, icona del sacro, tra baracche di anime dannate, opposta a un centro fuori dal tempio, sprofondato nella sua involutiva normalità e noia. La periferia vittoriniana di donne e uomini in Conversazione in Sicilia, in cui il genere umano sofferente è più genere umano: “Non ogni uomo è uomo, allora. Uno perseguita e uno è perseguitato, e genere umano non è tutto il genere umano, ma quello soltanto del perseguitato. Uccidete un uomo; egli sarà più uomo. E così è più uomo un malato, un affamato; è più genere umano il genere umano dei morti di fame” [3] .
Una periferia composta da materia vivente, quei ragazzi protagonisti dei suoi romanzi, bifronti anch’essi, sballottati tra slanci di generosità e gratuite violenze, paurosi e coraggiosi, sublimi nell’interpretazione del ruolo archetipo di un’umanità in cerca di evoluzione, spartito senza musica, contro un centro sordo, con una musica che non può sentire. Prende consistenza un affascinante azzardo dicotomico, stimolante e non raro compagno nelle mie assidue frequentazioni del pensiero pasoliniano: periferia, luogo scandaloso della sacralità dell’anima opposto al centro, spazio e immagine della non emendata involuzione del suo tempo rappresentata dal vulnus di un suicida consumismo figlio di un cieco capitalismo. Un azzardo che prende corpo e diventa plausibile proponendo altre assonanti dicotomie familiari nella poetica pasoliniana: anima-corpo, spiritualità-materia, vita-morte, eternità marcescenza, religione-ateismo, sacralità profanità, in un gioco di raffinati equilibri e contrapposizioni. Mi scuote ed esalta il concetto di sacro che orienta l’ateo Pasolini a sentire e meditare la realtà come panorama immanente di ierofania e mistero vitale: “La natura, con l’eterno ritorno del suo rifarsi nel tempo circolare ‘a forma d’uovo’, ne offre l’epifanico orizzonte con il ciclo eterno della morte-rigenerazione, di morte che rigenera la vita, come per gli dèi antichi della fecondità e per Cristo, sincreticamente abbinati, o come nel seme e nel chicco di grano che dà vita grazie al suo dissolversi, secondo una evangelica metafora agraria ricorrente nell’immaginario ‘antropologico’ pasoliniano” [4].
Sublime il sacro di Pasolini, nella sua identificazione con il mondo e la cultura contadini, testimone della necessità del suo recupero e dell’importanza del gratuito, dell’inconsumabile, del periferico irriducibile e sorprendente. Ne offre presenza e conferma nei suoi componimenti friulani del volume La nuova gioventù (1975) dividendoli in due momenti, La meglio gioventù (1941-1953) e Seconda forma de «la meglio gioventù» (1974). Concludono come appendice le dodici poesie italo-friulane pubblicate tra il 1973 e il 1974 con il titolo Tetro entusiasmo. Lo stesso autore precisa che queste ultime non presentano nessun riferimento alle precedenti, se non forse per l’uso, peraltro parziale, del friulano. In tale contesto poetico la struttura della forma e la scelta tematica, l’utilizzo della lingua italiana e del dialetto sono  in costante rapporto di contrapposizione, come ben spiegato dall’ennesimo ossimoro: “Le due polarità definiscono per contrari. La sostanza  non è più doppia, è lo stesso doppio a diventare sostanza facendo coabitare gli opposti (convivano infanzia e maturità […] grazia e dolore). Pasolini, nel suo ultimo anno di vita, sa che non potrà vedere la rivoluzione culturale sperata; queste dodici poesie sono un testamento gettato nel mare in burrasca, l’ultimo folle gesto di chi muore ma vorrebbe solo correre, di chi piange ma vorrebbe solo cantare (Prenditi / tu, sulle spalle, questo fardello. / Io non posso: nessuno ne capirebbe / lo scandalo)” [5].
Nella definizione di questi componimenti, in cui evoca i fatti della storia recente, Pasolini si ispira a un’espressione tratta da Delitto e castigo di Fëdor Dostoevskij. L’ossimoro infatti è citato all’interno della famosa teoria di Raskolnikov sulla distinzione fra uomini straordinari, che si pongono al di sopra delle leggi della morale, e gli ordinari che invece le devono rispettare: “Nel dire questo, Raskolnikov, pur guardando Sònja, non si preoccupava più se lei capiva o no. Era completamente in preda alla febbre, a una specie di tetro entusiasmo. È vero: da troppo tempo non parlava con nessuno! Sònja capì che quel cupo catechismo era diventato la sua fede e la sua legge” [6].
In tali scenari poetici   scopriamo tutta la ribellione dello scrittore verso il mondo “sviluppato” contemporaneo come “realtà centro”, opposta alla sacralità creaturale antica, identificata nella dimensione contadina, nelle sue ritualità ancestrali, nei suoi modelli etici e soprattutto nei suoi tempi “perfetti” come affermerebbe Jean Paul Sartre. Le poesie italo-friulane furono sottovalutate e parzialmente rimosse dagli apologeti di Pasolini per un apparente cedimento al pauperismo e per il rischio che l’autore stesso correva di venire accusato di essere reazionario a causa del suo sguardo rivolto al passato, preferito a un presente distruttivo, aggravato dalle disparità alimentate dal liberismo economico e dalla miope ricerca di un benessere opulento che premia solo i più ricchi ed emargina tutti gli altri.
Approfonditi studi evidenziano che in questo momento storico il 20% del pianeta consuma l’80% delle risorse mondiali. Tale modello di sviluppo, lontano dai principi etici e di eguaglianza sociale fu stigmatizzato dallo scrittore che anche in questo precorse i tempi: pensate a quanto attuali, applaudite e necessarie siano oggi la ricerca della sobrietà e la teoria della decrescita, promosse da illustri scienziati e ricercatori come Serge Latouche, Zygmunt Bauman e Francesco Gesualdi, il discepolo di don Milani, tanto apprezzato da Pasolini. L’autore in quel tempo non poteva che sostenere l’ipotesi di un arresto al consumismo sfrenato, la possibilità di un ritorno al passato, mentre oggi è possibile riflettere anche su strumenti alternativi quali il concetto di decrescita conviviale, di crescita calibrata o di localismo. Simbolo di questa esigenza etica Poesia popolare e Significato del rimpianto.
Nel primo componimento Pasolini ammette un errore di valutazione: parla a se stesso, al Partito Comunista e agli intellettuali di sinistra. Il dubbio si accompagna all’imbarazzo della propria lucidità: “Ci siamo sbagliati credendo che fosse/impossibile che gli uomini potessero cambiarsi/così in così poco tempo, che i ragazzi/crescessero, in così poco tempo, così voltati/a un nuovo destino” [7].


L’autore non si capacita di come sia stato possibile un tale cambiamento antropologico e “tutto solo per mille lire di più in saccoccia” [8].
Non riesce a rassegnarsi al fatto che il popolo, che lui tanto ama, non sia più “un popolo di santi”, bensì è diventato “un popolo di stupidi” (“della santità non è rimasto più niente” [9]).
Il proletariato non capisce che l’illusione del maggior benessere economico porta con sé un compromesso diabolico (“i soldi del giorno della vostra fine” [10]) né comprende, come Pasolini stesso afferma più esplicitamente nell’altro testo, Significato del rimpianto, che i primi a godere la crescita della ricchezza sono i ricchi. Tuttavia l’appello è rivolto anche allo stesso popolo corrotto. Egli si augura che questo cambiamento non sia tutta la nuova storia e come prova delle proprie speranze aspetta una rivoluzione. Se il popolo saprà tornare indietro significa che la sua corruzione non era causata dalla sete di benessere ma dalla santa rassegnazione e, secondo Pasolini, solo chi sa rassegnarsi sa anche ribellarsi.
Nella poesia Significato del rimpianto, Pasolini si chiede perché mai dovremmo aiutare i nemici di classe a risolvere i loro problemi. Nei primi anni ’70 il boom conosce la prima battuta d’arresto: il costo dell’energia schizza alle stelle, l’inflazione aumenta ed è accompagnata dalla stagnazione economica (“Noi dovremo dargli una mano?” [11]). La domanda buca la pagina. Se i signori, gli stessi signori che hanno fatto mutare le scelte e le abitudini del popolo, non riescono più a mantenere e portare a compimento il loro progetto, perché i comunisti dovrebbero sostenerli nella borghesizzazione del mondo? Aiutare lo sviluppo capitalistico equivale a rassegnarsi a questa realtà (“a credere che quella loro realtà / fosse quella di tutto il futuro” [12]). I problemi del capitalismo riguardano l’aspetto ecologico, la salute, l’istruzione e la vecchiaia. Porsi la questione se occorra farsi carico di queste difficoltà mina la stessa idea di democrazia, quale è conosciuta dal secondo dopoguerra. Pasolini piange un mondo morto, sa che il popolo non ha la forza per una rivoluzione e che si è venduto il sorriso per l’ansia di star bene e nel più breve tempo possibile. Siamo di fronte a un’apocalissi culturale? Forse, ma per Pasolini l’unico scenario veramente apocalittico e profano è quello che coincide con la fine della cultura contadina, con la corruzione che devasta le città e il proletariato urbano. L’autore sente di essere un uomo senza mondo, ormai lontano anche dalle amate periferie. L’essenziale naturalezza e l’originalità di questa realtà sottoproletaria sono state soppiantate dalla banalità e dalla “angosciosa volontà di uniformarsi” [13], proprie dell’epoca del benessere; la società contemporanea dei consumi è “il più repressivo totalitarismo che si sia mai visto” [14]. Ulteriore, significativa prova della sensibilità di Pasolini verso i problemi ecologici e sulla percezione della contrapposizione natura inquinamento è offerta dall’articolo conosciuto come La scomparsa delle lucciole, apparso il 1° febbraio 1975 sul Corriere della Sera con il titolo Il vuoto del potere in Italia, in seguito inserito negli Scritti corsari, editi da Garzanti e revisionati per la stampa dallo stesso Pasolini, apparsi subito dopo la sua morte. Ne riportiamo i passi più significativi: “Nei primi anni Sessanta, a causa dell’inquinamento dell’aria e, soprattutto, in campagna, a causa dell’inquinamento dell’acqua (gli azzurri fiumi e le rogge trasparenti) sono cominciate a scomparire le lucciole. Il fenomeno è stato fulmineo e folgorante. Dopo pochi anni le lucciole non c’erano più. (Sono ora un ricordo, abbastanza straziante, del passato: e un uomo anziano che abbia un tale ricordo, non può riconoscere nei nuovi giovani se stesso giovane, e dunque non può più avere i bei rimpianti di una volta). Quel ‘qualcosa’ che è accaduto una decina di anni fa lo chiamerò dunque ‘scomparsa delle lucciole’ ”[15].
Tale assenza assume un profondo significato etico: “I ‘valori’ nazionalizzati e quindi falsificati del vecchio universo agricolo e paleocapitalistico, di colpo non contano più. Chiesa, patria, famiglia, obbedienza, ordine, risparmio, moralità non contano più. E non servono neanche più in quanto falsi. A sostituirli sono i ‘valori’ di un nuovo tipo di civiltà, totalmente ‘altra’ rispetto alla civiltà contadina e paleoindustriale. Questa esperienza è stata fatta già da altri Stati” [16]. Si tratta di una vera e propria mutazione sociale, morale, antropologica: “In Italia sta succedendo qualcosa di simile: e con ancora maggiore violenza, poiché l’industrializzazione degli anni Settanta costituisce una ‘mutazione’ decisiva anche rispetto a quella tedesca di cinquant’anni fa. Non siamo più di fronte, come tutti ormai sanno, a ‘tempi nuovi’, ma a una nuova epoca della storia umana, di quella storia umana le cui scadenze sono millenaristiche. Era impossibile che gli italiani reagissero peggio di così a tale trauma storico. Essi sono diventati in pochi anni (specie nel centro-sud) un popolo degenerato, ridicolo, mostruoso, criminale. Basta soltanto uscire per strada per capirlo. Ma, naturalmente, per capire i cambiamenti della gente, bisogna amarla. Io, purtroppo, questa gente italiana, l’avevo amata: sia al di fuori degli schemi del potere (anzi, in opposizione disperata a essi), sia al di fuori degli schemi populisti e umanitari. Si trattava di un amore reale, radicato nel mio modo di essere” [17]. La conclusione è lacerante: “Ad ogni modo, quanto a me (se ciò ha qualche interesse per il lettore) sia chiaro: io, ancorché multinazionale, darei l’intera Montedison per una lucciola” [18]. Il pensiero di Pasolini sulla sacralità della natura e sulla solenne necessità di equilibrare risorse e consumi pena il rischio di sopravvivenza dell’uomo e del pianeta è confermato dalla seguente intervista inserita nel film Le ragioni di un sogno (2001) di Laura Betti sulla trasformazione antropologica del cittadino in consumatore, l’omologazione culturale, la produzione o l’acquisto di beni superflui, lo sviluppo senza il progresso: “Vorrei fare una distinzione tra sviluppo e progresso: tra le due parole c’è una differenza enorme. Sono due cose non soltanto diverse, ma addirittura opposte e inconciliabili: lo sviluppo, almeno in Italia, vuole la produzione smaniosa e disperata di beni superflui, mentre in realtà coloro che vogliono il progresso vogliono la creazione di beni necessari. Il consumismo è una forma assolutamente nuova, rivoluzionaria, di capitalismo perché ha degli elementi nuovi dentro di sé che lo rivoluzionano, cioè la produzione di beni superflui in scala enorme. La scoperta, quindi, della funzione edonistica che questo mondo non voglia più avere dei poveri, ma delle classi che vogliano consumare. Vuole avere dei bravi consumatori, non dei bravi cittadini. Questo ha trasformato antropologicamente gli italiani. Perché gli italiani più degli altri? Perché l’Italia non ha mai avuto né un’unificazione monarchica, né un’unificazione luterana né riformistica, che è quella che ha preparato la civiltà industriale, né una rivoluzione borghese, né la prima rivoluzione industriale. Non ha avuto nessuna di queste rivoluzioni omologatrici. Per la prima volta, quindi, l’Italia è unificata nel consumismo e la cosa è abbastanza terrorizzante e abbastanza definitiva” [19]. E lo stesso Pasolini conclude che: “C’è un’ideologia reale e incosciente che unifica tutti: è l’ideologia del consumo. Uno prende una posizione ideologica fascista, un altro adotta una posizione ideologica antifascista, ma entrambi, davanti alle loro ideologie, hanno un terreno comune, che è l’ideologia del consumismo […]. Ora che posso fare un paragone, mi sono reso conto di una cosa che scandalizzerà i più, e che avrebbe scandalizzato anche me, appena 10 anni fa. Che la povertà non è il peggiore dei mali, e nemmeno lo sfruttamento. Cioè, il gran male dell’uomo non consiste né nella povertà, né nello sfruttamento, ma nella perdita della singolarità umana sotto l’impero del consumismo” [20]. Alla pagana società consumistica viene dunque contrapposto il sacro vecchio mondo contadino sottoproletario e quello pre-borghese: “il mondo dei dominati”, transnazionale perché profondamente simile in tutte le nazioni. Questi “consumatori di beni necessari, privi del superfluo” rischiano di essere debellati progressivamente dalla società dei consumi: “L’Italia di oggi è distrutta esattamente come nel 1945. Anzi, certamente la distruzione è ancora più grave, perché non ci troviamo tra macerie, pur strazianti, di case e monumenti, ma tra ‘macerie di valori’: valori umanistici, e, quel che più importa, popolari” [21].
Periferia-centro, sacralità-profanazione del consumismo: ancora una volta le dicotomie pasoliniane ci scuotono dentro e le avvertiamo come vibrazioni della nostra anima in perenne ricerca.

Articolo pubblicato su ” Il Foglio dell’Umanitaria” numero 1 del 2022 – La città ideale 2.0


[1] A. Felice, Pasolini e il Sacro. Un’interrogazione permanente, Introduzione a D. Gallo, Pier Paolo Pasolini: sulle tracce del Sacro, Gruppo Editoriale Viator, Milano, 2014, p. 5.
[2] M. Recalcati, Pasolini. Il fantasma dell’origine, Feltrinelli, Milano, 2022, pp. 10-11.
[3] E. Vittorini, Conversazione in Sicilia, Einaudi, Torino, 1966, p. 100.
[4] A. Felice, Pasolini e il Sacro. Un’interrogazione permanente, cit., pp. 6-7.
[5] L. Barbirati, Cultura, letteratura e poesia, in www.lintellettualedissidente.it.
[6] Cfr. F. Dostoevskij, Delitto e castigo, Einaudi, Torino, 2005 (trad. it. di A. Polledro).
[7] P.P. Pasolini, Poesia popolare, in La nuova gioventù. Poesie friulane 1941-1974, Einaudi, Torino, 2002, p. 239.
[8] Ibidem.
[9] Ibidem.
[10] Ibidem.
[11] P.P. Pasolini, Significato del rimpianto, in La nuova gioventù. Poesie friulane 1941-1974, cit., p. 237.
[12] Ibidem.
[13] P.P. Pasolini, Scritti corsari, Garzanti, Milano 2013, p. 554.
[14] Ivi, p. 54.
[15] P.P. Pasolini, L’articolo delle lucciole (Il vuoto del potere in Italia), Corriere della sera, 1 febbraio 1975, in Scritti corsari, cit., p. 129.
[16] P.P. Pasolini, L’articolo delle lucciole (Il vuoto del potere in Italia), Corriere della sera, 1 febbraio 1975, in Scritti corsari, cit., pp. 130-131.
[17] Ivi, p. 131.
[18] Ivi p. 134.
[19] L. Betti, P. Costella (a cura di), Le ragioni di un sogno, documentario su Pier Paolo Pasolini prodotto dalla Palomar nel 2021
[20] Cfr. P.P. Pasolini, “Il Fascismo, ora”, in W. Siti (a cura di), Saggi sulla politica e sulla società, Arnoldo Mondadori, Milano 1999.
[21] P.P. Pasolini, “Pannella e il dissenso”, Corriere della sera, 18 luglio 1975, in Lettere luterane, L’Unità-Einaudi, RomaTorino 1976, p. 83