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UNIUMA – S.S.M.L. ad ordinamento universitario “P.M. Loria”

Il futuro dei flussi migratori

La didattica della mediazione culturale

Lo scorso ottobre è stato presentato contemporaneamente in tutta Italia il Dossier Statistico dell’Immigrazione 2024 del Centro Studi e Ricerche IDOS. È uno degli strumenti più aggiornati per capire il fenomeno migratorio nel nostro paese e nel mondo. Altri due rapporti altrettanto importanti sono diffusi dalle Fondazioni Ismu e  Caritas-Migrantes di cui parleremo in modo specifico in successivi interventi.

L’importanza di tali pubblicazioni risiede nel fatto che intorno al tema delle migrazioni in Italia la disinformazione più o meno strumentale è così diffusa da condizionare le politiche migratorie in senso restrittivo ed emergenziale. Infatti, è costantemente alimentata la percezione che l’immigrazione sia un fenomeno talmente fuori controllo da mettere a repentaglio la stabilità e la sicurezza del Paese. Non costituisce una giustificazione che tale sensazione sia diffusa in molti altri Stati del mondo, il fatto è che da essa traggono vantaggio in termini di consenso le forze politiche sovraniste o nazionaliste, che nelle loro rivendicazioni di chiusura delle frontiere si spingono fino a mettere in discussione il diritto d’asilo, cioè di accordare la protezione internazionale alle vittime di violenza, abusi e discriminazioni, oppure di avanzare progetti di espulsioni di massa, anche degli immigrati che risiedono regolarmente nel territorio. Invece, secondo la stima delle Nazioni Unite, rileva il Dossier 2024, “sebbene il numero di persone che si muovono nel mondo sia aumentato, in proporzione alla popolazione globale questo dato è rimasto costante nel corso dei decenni, attestandosi intorno al 3% almeno dal 1990. Inoltre, nonostante la diffusa conflittualità globale stia generando un flusso senza precedenti di rifugiati, questi ultimi rappresentano pur sempre meno dello 0,4% della popolazione mondiale” (p. 25 del Dossier). Nel 2023 il numero dei migranti internazionali, in base alle proiezioni effettuate a partire dagli ultimi dati certi acquisiti nel 2020, dovrebbe essersi attestato intorno ai 300milioni, circa il 3,7% della popolazione globale. A questi vanno aggiunti i circa 117 milioni di migranti forzati a fine 2022, certo il numero più alto mai registrato nei tempi moderni, ma sono l’effetto dell’aumento delle crisi umanitarie determinate da guerre, emergenze climatiche e autentiche catastrofi economiche, che la comunità internazionale non riesce ad affrontare e risolvere. In conclusione, il fenomeno è globale, ma con bilanci relativamente stabili.

A livello macro, le direzioni dei flussi sono abbastanza radicate: dalle periferie globali verso il centro, prevalentemente occidentale, del sistema; anche se la mobilità intra-regionale, specialmente per i rifugiati, rappresenti un fenomeno rilevante. In America latina, Africa, Medio oriente e Asia meridionale, gli emigranti superano gli immigrati, mentre in Europa, Oceania, America settentrionale e Asia Nord-Orientale il saldo è all’opposto positivo.

In Italia, oggi, su una popolazione di circa 59milioni di abitanti, gli immigrati sono 5.307.598, cioè il 9% sul totale dei residenti. Un incremento intorno ai 150mila individui rispetto allo scorso anno. Una leggera ripresa dopo gli anni della pandemia di Covid-19, quando il fenomeno migratorio aveva subito un significativo rallentamento. Più del 50% degli immigrati in Italia sono donne, mentre il 19,9% sul totale dei residenti stranieri sono minori. Un dato importante riguarda il fatto che 199.995 immigrati hanno acquisito la cittadinanza italiana. Questo significa che, date le leggi attuali, l’immigrazione ha raggiunto una stabilità e una durata nel tempo tale da poter accedere ai processi di naturalizzazione. Ciò che emerge però chiaramente è la centralità dei migranti per il futuro del nostro paese. L’Italia è nell’Unione Europea, il terzo paese per popolosità dopo Germania e Francia, ma è anche lo Stato con l’età media più alta (48,4 anni rispetto ai 44,5 dell’UE) e il tasso di fertilità tra i più bassi (1,24 rispetto all’1,46 in Europa), quindi l’Italia invecchia più rapidamente (la speranza di vita alla nascita in Italia è arrivata a 83,1 anni e ha ripreso a migliorare dopo l’interruzione del periodo della pandemia) e cresce molto meno delle altre regioni europee e del mondo, sia dal punto di vista demografico che produttivo. Senza l’immigrazione, nell’arco di un ventennio, se non prima, il nostro paese perderebbe abitanti in modo consistente e molte attività produttive non troverebbero manodopera. E anche se, come è auspicabile, si aumentasse il tasso di fertilità, il problema rimarrebbe, perché nelle società mature e avanzate la natalità non arriva mai a coprire le richieste del mercato del lavoro, a meno che non si accetti una situazione di stagnazione o addirittura di decrescita economica. Il calo demografico in Italia risulta più sensibile nelle aree interne e del Mezzogiorno che soffrono di una triplice perdita: il calo demografico nazionale, la mobilità interna e le partenze verso l’estero.

Mentre l’Italia incomincia a perdere abitanti, nonostante l’immigrazione dal 2020 il nostro paese ha circa 652mila residenti in meno, continuano ad aumentare invece gli italiani residenti all’estero. Oggi la comunità dei cosiddetti Expats è composta da oltre 6milioni 134mila cittadini. Dopo un calo negli anni ottanta e Novanta del secolo scorso, l’emigrazione italiana ha ripreso a crescere. Non siamo ai numeri della fine dell’Ottocento o del Secondo dopoguerra, quando centinaia di migliaia di nostri connazionali partivano per l’estero, spesso senza più ritornare, ma l’incremento degli emigranti è nuovamente significativo.

L’AIRE (Anagrafe degli Italiani Residenti all’Estero) ci dice che dei 6,1milioni di iscritti, il 54,2% si trova in Europa e il 40,6% in America e il resto sparso per Oceania (2,7%), Asia (1,3%) e Africa (1,1%). Quindi, l’Europa si conferma come l’area in cui i nostri connazionali preferiscono risiedere all’estero, per le possibilità che offre di praticare forme di mobilità circolare. Ma un dato certamente importante è che la voglia di espatriare prende tutte le fasce di età. Infatti se il 45.5% dei nostri connazionali residenti all’estero ha tra i 18 e i 34 anni, più del 50% supera questa età e il 5,5% ha più di 65 anni. L’aumento degli over 65enni è la novità più consistente, infatti l’incremento è del 12,9%, pertanto a muoversi sono anche i nostri pensionati che cercano luoghi dove il costo della vita è decisamente inferiore rispetto al nostro paese. Se l’Italia non è “un paese per giovani” non è più neanche “un paese per vecchi”, data la ripresa della mobilità previdenziale. La scelta di andare all’estero non riguarda solo le opportunità di lavoro, o il costo della vita. La nostra economia ha bassi salari e pochi investimenti nelle aree dell’economia più moderne, pertanto i nostri laureati non sono assunti negli ambiti per cui hanno studiato. L’Italia è il paese dove più alto è il fenomeno del “mismatch” cioè il mancato incontro fra domanda e offerta di lavoro. Infine, l’alta percentuale di attività dell’economia sommersa, non solo criminale, crea ambienti lavorativi dove né i salari, né le condizioni di lavoro sono adeguate, quindi meglio trasferirsi dove vi è un migliore riconoscimento, sia salariale che professionale.

Prof. Bruno Milone
Docente di sociologia dei flussi migratori presso la S.S.M.L. P.M. Loria della Società Umanitaria